Perchè mangiamo animali?

La domanda non è banale. E a chi risponde con un nuovo interrogativo («perché non dovremmo?»), è semplice fornire una risposta.

Gli animali fanno parte da sempre della vita dell’uomo, in ogni forma: vivono insieme a noi, li citiamo nelle nostre metafore e nella nostra simbologia («è furbo come una volpe!»), sono i protagonisti del calendario cinese e dello zodiaco. Riempiono i nostri schermi quando va in onda la pubblicità alla televisione: chi non è in grado di accostare un tenero cagnolino alla soffice carta igienica?

Gli animali accompagnano addirittura presidenti e papi nella loro vita privata e, talvolta, pubblica. Allora perché, nonostante questa simbiosi ancestrale, manteniamo con gli animali un rapporto che è sempre di subordinazione e violenza?

Basti pensare ai macelli, alla vivisezione, agli allevamenti intensivi. Tutti, o quasi, ne traiamo vantaggio e ne siamo indirettamente responsabili.

La dott.sa Annamaria Manzoni ha spiegato in un’esposizione chiara e completa come la nostra mente riesce a nascondere il nostro amore per gli animali, sottomettendolo al nostro appetito.

Il tutto in sei piccoli «meccanismi»:

1) Omocentrismo: fin dalle origini della nostra esistenza abbiamo sempre pensato di essere al centro dell’universo. Noi, esseri superiori a tutte le altre specie, possiamo fare delle altre ciò che più ci piace. Ci hanno plasmato in questo senso le grandi religioni monoteiste dicendoci che solo l’uomo ha un’anima. Ci plasma ogni giorni il linguaggio che utilizziamo per denigrare chi compie azioni riprovevoli: «una bestia, un animale». Ma un animale violenterebbe mai un bambino? Farebbe mai a pezzi un suo simile per odio o vendetta?

2) Disimpegno morale: se scolleghiamo i nostri atti dalla morale che generalmente ci guida, nessun senso di colpa verrà mai a tenerci svegli la notte. Se normalizziamo la violenza solo perché accade, il passo successivo sarà legalizzarla. Una volta legalizzata, sarà ancor più ritenuta la norma. Il circolo vizioso ha inizio.

3) Confronto vantaggioso: «Cosa vuoi che siano una o due oche spennate vive per farmi il piumino, quando in Siria muoiono ogni giorno donne e bambini sotto le bombe?». Eppure una violenza spropositata non può trasformarne una meno tragica in un atto normale. La vivisezione non è meno grave solo perché l’uomo è capace di compiere azioni doppiamente riprovevoli.

4) Dislocamento delle responsabilità su chi è più autorevole: «se nei mattatoi vengono trucidate le mucche, è colpa mia? Sarà colpa di chi taglia loro la gola, del capo che glielo ordina, dell’amministratore delegato che possiede l’impresa… ma non mia che la mangio!». È facile obbedire al sistema, ben più arduo è disobbedire per cambiare lo stato delle cose. Per rovesciare il sistema.

5) Rimozione: quando qualcosa non ci piace, semplicemente lo eliminiamo dai nostri pensieri. Spostiamo il pensiero nel campo del subconscio, così che non torni più a tormentarci mentre addentiamo una bistecca sanguinolenta o mentre ci stringiamo nel nostro piumino caldo. È uno dei più diffusi meccanismi di difesa della nostra mente.

6) Negazione: non siamo in grado di controbattere una realtà presentataci in tutta la sua cruda violenza? Allora la neghiamo: «Non parlarmene nemmeno! Non voglio sapere, non farmici pensare!». È così che inibiamo qualsiasi reazione alla crudeltà del sistema carnivoro, illudendoci che un posto da spettatori sia migliore del ruolo del carnefice. Ma la vittima è già nei nostri piatti e ogni giorno ci guarda attraverso gli occhi vitrei che qualcuno le ha cavato perché noi potessimo nutrircene senza provare alcun senso di colpa.

Alfred Korzybskyera

uo usque tandem abutere, homo, patientia nostra? (Fin quando abuserai, o uomo, della nostra pazienza?) Alfred Korzybskyera uno scienziato e filosofo polacco, famoso per aver sviluppato la teoria della general semantics (o semantica generale) secondo cui l’essere umano è limitato dalla struttura del suo sistema nervoso e da quella del suo linguaggio. Una visione sicuramente strutturalista che, seppur abbia dei limiti in quanto circoscrive fortemente ogni fattore ‘decisionale’ e ‘l’autonomia’ del ‘soggetto’ all’interno di un sistema strutturato, in generale porta con sé ineluttabili verità. La prova che la teoria di Korzybsky sia corretta può essere infatti dipinta attraverso un famoso aneddoto che vede come protagonisti lo stesso filosofo polacco durante una sua lezione ed i suoi studenti. L’aneddoto viene riportato sul sito di Wikipedia italiano: “Un giorno, mentre teneva una lezione ad un gruppo di studenti, s’interruppe per prendere dalla sua borsa un pacchetto di biscotti avvolto in un foglio bianco. Borbottò che aveva solo bisogno di mandar giù qualcosa, e offrì i biscotti agli studenti seduti nella prima fila. Alcuni ne accettarono uno. – Buoni questi biscotti, non vi pare? – disse Korzybski dopo averne preso un secondo. Gli studenti masticavano vigorosamente. Poi tolse il foglio bianco mostrando il pacchetto originale. Sul quale c’era l’immagine di una testa di cane e le parole ‘biscotti per cani’. Gli studenti videro il pacchetto e rimasero scioccati. Due di loro si precipitarono fuori dall’aula verso i bagni tenendo le mani davanti alle bocche. – Vedete signori e signore? – commentò Korzybski – ho appena dimostrato che la gente non mangia solo il cibo, ma anche le parole, e che il sapore del primo è spesso influenzato dal sapore delle seconde”. Con questo esperimento Korzybsky dimostrò che il pregiudizio, costruito attraverso i discorsi, assume un ruolo essenziale nel nostro rapportarci con la realtà, ovvero la nostra interazione con la realtà stessa è filtrata dal linguaggio e quindi dalla cultura (dato che, come affermano importanti studiosi di semiotica, ‘non vi può essere cultura senza linguaggio’). Questo illuminante aneddoto ci dice molto sul rapporto tra uomo e realtà e ci aiuta anche a far luce su alcuni meccanismi che riguardano il consumo di carne. È difatti un dato oggettivo e indiscutibile il fatto che nelle diverse culture del pianeta ci si alimenti di animali diversi pur avendo queste, almeno virtualmente, a disposizione le stesse (o quasi) specie animali. Ad esempio, il cane vive sia in Italia che in Cina, eppure mentre nel primo paese questo essere vivente viene definito come ‘il miglior amico dell’uomo’ nel secondo è considerato ‘una prelibata delicatessen’. In Italia ci si nutre di cavalli, maiali, vacche, pollame, pecore, tonni e conigli come se fossero acqua minerale, animali che in altri paesi invece sono visti come sacri o comunque non come cibo: mangiar carne di cavallo è ad esempio un atto barbarico per uno statunitense, mangiar coniglio una follia per un britannico mentre mangiar vacca un reato per un indiano. I giapponesi sono grandi consumatori di delfini, cosa che agli occhi di un occidentale sembra quasi un atto di cannibalismo. In Tailandia il ratto e le cavallette sono tra i piatti tipici, esseri orripilanti nel ‘civile’ occidente. L’India, a sua volta, vanta una millenaria tradizione vegetariana che coinvolge oggi trecento milioni di persone tali dalla nascita, dato che rinforza maggiormente l’idea che il mangiare (o il non mangiare) animali in generale sia una pratica del tutto culturale. Qualcuno affermerà che in condizioni estreme anche un italiano mangerebbe il cane e probabilmente un indiano una vacca. Questo fatto è indiscutibile. Infatti il caso del disastro aereo sulle Ande, dove i superstiti si nutrirono per mesi dei cadaveri degli altri passeggeri, dimostra come l’uomo in condizioni estreme possa nutrirsi perfino dei suoi stessi simili. Inoltre sappiamo di culture (come gli aztechi ad esempio) in cui il cannibalismo era una cosa naturalissima, ma non è questo il punto. Il punto è che se ad un italiano, in condizioni non estreme, viene servito al ristorante un cane, un piatto di cavallette o un topo, probabilmente (tranne che per alcuni casi sporadici o patologici e a meno che la cosa non gli venga nascosta come nell’esperimento di Korzybsky) questo reagirà disgustato, mentre per la stessa persona è cosa normale nutrirsi di conigli, cavalli, escargot e altri animali certamente disgustosi per gli appartenenti ad altre culture. La spiegazione a questa strana ‘discriminazione’ a prima vista del tutto arbitraria, seguendo la teoria di Korzybsky, avrebbe dunque natura endogena ovvero risiederebbe per l’appunto nell’abitudine indotta dalla cultura attraverso il linguaggio e, ovviamente, la pratica che col tempo diventa abitudine: l’uomo mangia innanzitutto con le parole della propria cultura. Ne consegue che l’uomo occidentale medio trovi ripugnante trovare un pelo di sopracciglio nel suo McBurger (dicono per motivi igienici), ma non il nutrirsi delle interiora (cotte ovviamente) di un altro animale proveniente da chissà dove e nutrito con chissà cosa (magari con immondizia). Qualcuno rivendica la naturalezza del mangiar carne tirando in causa l’uomo primitivo e il nostro essere ‘onnivori’ (quindi saremmo biologicamente ed istintivamente mangiatori di muscoli alla brace e scatolette di tonno), rinnegando dunque l’evidente dato di fatto che la cultura in cui è immerso ha giocato (e gioca) un ruolo fondamentale nell’acquisizione e accettazione di certe pratiche (mangiare certi animali e non altri, selezionarne i pezzi commestibili attraverso l’uso di tecnologie per la lavorazione, la cottura etc.). In realtà ogni riferimento all’uomo primitivo per la difesa di queste pratiche appare soprattutto retorica e l’unica vera certezza che abbiamo è che – almeno stando alla decodificazione dei più antichi testi filosofici e religiosi – l’uomo predichi la compassione nei confronti degli altri animali e denunci l’uccisione inutile di questi almeno da quando esiste la scrittura e, viceversa, gli anatemi erano connessi a rituali ecatombici di tipo religioso di alcune culture. Infine, dato di fatto inconfutabile, è che prima dell’avvento dell’industrializzazione non era minimamente possibile consumare le quantità industriali di carne e derivati proprie dell’era industriale, anzi sappiamo che, senza andare tanto lontano nel tempo, i nostri parenti appena 50-60 anni fa avessero un consumo di carne molto irrisorio. La situazione attuale deriva dal mito antropocentrico occidentale che giustifica la reificazione della vita in nome di una presunta ‘emancipazione’ (da cosa? Dalla Natura? Ma questa è una amputazione!) dell’uomo, e raggiunge i suoi effetti massimi con le raffinate pratiche capitalistiche legate al processo industriale (un Sisifo che trasporta capitali) e attraverso i potentissimi media tecnologici che hanno stabilito l’accettazione e l’acquisizione da parte delle masse di questi devastanti modelli negli ultimi 40 anni: del resto extra Ecclesiam… Uno studio recente condotto da due sociologi (Cole e Morgan) che hanno analizzato la stampa britannica per un anno nel 2007, studio pubblicato nel 2011 sul The British Journal of Sociology, ha mostrato come ben il 74,3 % degli articoli di giornale presi in esame (su un totale di 397) in cui viene discusso o soltanto citato il veganismo, affronti la questione in modo superficiale e derisorio concentrandosi soprattutto sugli ‘stravaganti’ stili di vita dei vegani (specie se famosi), sulla impossibilità di essere coerenti (e quindi sulla inutilità della causa – tanto vale continuare a mangiar costolette di maiale), su un ascetismo rivolto alla rinuncia (invece di parlare di scelta!), su una presunta aggressività, ma senza mai affrontare le vere ragioni sul perché essere vegani (violenza nei confronti degli animali, una economia aggressiva non sostenibile, l’inutilità della carne nella dieta, etc.). Soltanto il 5,5 % degli articoli analizzati effettivamente tratta la tematica in modo approfondito, concentrandosi sugli argomenti portati dai vegani invece che sui pettegolezzi. La ricerca evidenzia altresì che il continuo aumento di vegetariani in Europa e negli USA desta preoccupazione alle industrie della carne, e da qui ne deriva questo tentativo di emarginare il ‘problema’, ridicolizzando il movimento (si parla di vera e propria vegafobia). Quindi si osserva come i media in modo diretto lancino messaggi finalizzati alla persuasione della massa per il consumo di animali (le pubblicità con le vacche felici per intenderci, o i consigli di attori mascherati da medici) legati soprattutto ad interessi economici, e indirettamente ghettizzino il ‘diverso’, mantenendo (o cercando di mantenere) di fatto coesa la massa verso un certo tipo di consumo mascherato da ‘tradizione’, e questo a prescindere da ciò che i vegani abbiano da dire realmente sulla questione animale legata anche alla salute dell’uomo e del pianeta. Anche in Italia assistiamo agli stessi teatrini. Il lavoro del linguaggio (e quindi dei media) in questo contesto è essenziale. In tutto ciò le uniche inconsapevoli e innocenti a rimetterci le penne rimangono le ignare vacche (et similia) che, se fossero capaci di esprimersi con il nostro linguaggio, tra un ciuffo d’erba e l’altro, probabilmente ci chiederebbero: “per quanto tempo ancora abuserete, umani, della nostra pazienza?”.

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